Bartleboom

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editoriale di Bartleboom

Se ripenso agli anni ’80 – e mi capita ogni volta che ascolto musica anni ’80, oppure quando mi vendono per nuovo il sound di soggetti come LaRoux, che, a parte il nome, non ha poi nulla di così diverso e originale dalla musica di trent’anni fa – ho spesso la sensazione che i miei anni ’80 si siano fermati
alla primavera del 1983. Non mi è successo niente di particolare, nel 1983; però, è l’anno di cui ho più foto, più testimonianze, più ricordi, e quindi l’anno che mi condanno a rivivere ogni volta che incrocio quelle foto, nelle rare occasioni in cui mi oramai mi capita.

Nel tardo inverno del 1983, assieme ai miei, abbiamo fatto una gita in montagna, per vedere l’ultima neve della stagione, assieme alle cime imbiancate di montagne più suggestive nella stagione fredda che d’estate. Come tutti i cittadini persi in un gita fuori porta, non eravamo organizzati; nessuno di noi era lì per sciare, con doposci-berretti-guanti-maglioni-pantaloni-imbottiti: mio padre veniva dal mare, dire collina era come dire montagna nella sua infanzia, a scalare un cavalcavia ti sentivi un campione di ciclismo, gli sci, nel suo mondo, erano un passatempo per ricchi. Quella montagna, raggiunta nell’inverno dell’83, era il suo esotismo, il suo Everest.

L’unica cosa che avevamo, con noi, giacche pesanti a parte, era la macchina fotografica.

All’uscita della funivia, a duemila metri, mio padre mi disse di mettermi sopra un mucchio di terra ricoperto dalla neve, per farmi una foto, riprendendomi dal basso: da ventisette e passa sono inchiodato lì, con le braccia spalancate, tutto il bianco della neve attorno, ed uno spicchio di azzurro dietro di me. Chi riveda oggi quelle braccia spalancate, potrebbe credere che io stessi simulando il volo, all’altezza delle aquile e a duemila metri sopra il mare: io so invece che quel gesto simulava una pubblicità con Mike Bongiorno e la sua “allegria” in cima al Cervino. Ma taccio, e lascio che chi vede ora creda davvero nell’illusione del volo di un me bambino.

Mi dicono che sabato nevica, e che quella montagna sarà sicuramente sotto la neve.

Rivedo il mio sorriso nella foto, la mia allegria presa in prestito dalla pubblicità di un prodotto che i miei non hanno probabilmente mai comprato, e che non mi sono mai sognato di restituire a  Mike. Rivedo tutto il bianco attorno.

Non c’è nulla che dia l’idea dell’infinito, e del possibile, come il bianco, sia esso uno spazio da riempire con un disegno o una frase, una notte da passare persi nei pensieri nell’attesa di un sonno che non verrà prima dell’alba, un muro su cui appendere un poster o la tua foto. Nulla che assorba tutte le forme che possiamo inventarci, verosimili, probabili ed improbabili, così come il bianco è l’assenza di ogni colore, l’attesa di ogni cosa a venire, un momento senza dimensioni, senza spazio e senza tempo, senza limiti capaci di segnare il prima ed il dopo, il dentro ed il fuori.

Melville vede nel bianco l’infinito di un dio inconoscibile, la prova del mistero che non possiamo svelare. Poe descrive la fine di Gordon Pym perso nel bianco glaciale in cui l’infinito dell’orizzonte marino si incontra con l’infinito del cielo, e l’ignoto si manifesta in tutta la sua vastità. Per Kieslowski il bianco è la somma dei contrari, di ciò che si è dato ed avuto, quell’infinito che per alcuni matematici tende allo zero, all’annullamento delle differenze, del dritto e del rovescio, del sopra e del sotto, del giusto e dell’ingiusto, e, forse, anche del bene e del male. Quella stessa LaRoux di cui scrivevo poco sopra – prima di consumare il bianco residuo del mio foglio word – gira nel suo piccolo un video in cui ogni possibile forma geometrica scaturisce dal bianco e dal vuoto, un vuoto dove il 1983 è accaduto esattamente oggi, mentre me la immagino sul palco di Discoring o in finale al Festivalbar.

Nel mio spazio bianco mi accontento di dare l’illusione di un volo che forse non è mai spiccato, conservando il senso dell’allegria che solo il senso di uno spazio aperto può realmente darti, in quella bianca età che sembra ai più fortunati l’infanzia, in cui tutto è da scrivere e nulla è ancora accaduto.

Sabato nevica, e le catene sono l’ultimo dei miei pensieri.

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Da qualche tempo penso sempre più spesso alla paternità.
Non che abbia tutta ‘sta fretta di avere a che fare con notti insonni, pannolini farciti di nutella radioattiva e piogge acide di rigurgito post pappina. E’ solo che ad un certo punto le cose intorno a te cambiano: le tue ex si sposano, i tuoi amici pure, incontri dopo anni il capellone del liceo ed è più pelato di un pomodoro San Marzano e ti ritrovi a chiederti quand’è che la tua vita ha iniziato ad assomigliare pericolosamente ad un film di Muccino.

Sorvolando su questioni di cui mi frega tutto sommato poco (maschio o femmina? Come lo chiamiamo?), questioni a cui, ora come ora, non voglio nemmeno pensare (come lo mantengo? E se nasce con qualche malattia?), e questioni troppo grandi per me (il mondo è un posto troppo brutto etc.), ciò che mi fa davvero paura è la quotidianità.

Se mio figlio sarà un maschio, c’è il 50% di possibilità che si ritrovi vittima di atti di bullismo fin dalla tenera età. La soluzione potrebbe essere quella di mandarlo a lezione di arti marziali appena tolto il pannolone: forse, così, non sarà vittima delle baby gang di quinta elementare che vogliono buttargli i Gormiti nella turca. Ma a quel punto ci sarebbe il 75% di possibilità che sia lui uno dei bulli della scuola.
Oddio, se proprio dovessi scegliere, preferirei che fosse uno di quelli che le dà, piuttosto che uno di quelli che le prende, però anche l’idea di un figlio rissoso e cafonazzo non mi fa uscire matto.
Senza contare che, in quel caso, nel giro di una decina d’anni, pure io rischierei di prendere un sacco di legnate se solo mi azzardassi a rifiutargli l’acquisto dello scooter più fico del momento.

Se sarà femmina, c’è il 20-30% di possibilità che tra una quindicina d’anni mi ritrovi per casa una escort in erba, con i pantaloni a pelo di figa e il taglio delle chiappe bene in vista, la cicca in bocca anche di notte e il trucco di Moira Orfei.
Certo, può sempre capitare che per allora non esistano più i cellulari, le videocamere, internet, il peer to peer e pure Piersilvio Berlusconi e il suo stracazzo di digitale terrestre di Mediaset Premium. Così - forse - non correrò il rischio di imbattermi in un video che la vede protagonista di una gang bang con la nazionale australiana di bowling. Ma chissà perché la vedo un’eventualità un po’ remota.

Non so.
E’ come se guardassi i bambini di oggi e ne fossi intimorito.
Penso alla mia infanzia e mi ricordo giangiulone e babbazzo: estasiato dalle prodezze grafiche di un Commodore 64, incredulo mentre il mio compagno di banco mi racconta l’ultima puntata di Colpo Grosso, terrorizzato all’idea di un ceffone di mia madre o di una nota della maestra.
Guardo i bambini di oggi e li trovo sgamatissimi e un po’ figli di puttana: a 9 anni hanno l’I-Phone, sono top uploader su Xhamster (sempre sia lodato), e se provi a sgridarli ti mandano affanculo in italiano, francese ed inglese (peraltro con un discreto accento).
Al telegiornale dicono è sbagliato e che è colpa dei genitori assenti e incoscienti.
Io, ad essere sincero, non ho ancora capito se tutto ciò è un male o un bene.

Mi ripeto che è una ruota che gira, che un figlio è (quasi) sempre una gioia, che ci sono passati tutti, che il mestiere di genitore è da sempre quello più difficile, che i momenti belli (si spera) alla fine ti fanno dimenticare quelli brutti e che, in ogni caso, “ne vale la pena”.
Qualche volta mi basta.
Tutte le altre no.

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Lui era un dodicenne che viveva pericolosamente, in equilibrio precario sulla sottile linea della nerditudine. Biondo e occhialuto, con la fissa per i videogiochi, schifato dalle femmine, ma apprezzato dai professori. Sulla fronte, bene in vista, portava un ciuffo duro e appiccicoso: cicatrice di un’infanzia sfregiata da una sorella maggiore a botte di elettro-pop anni ’80, mosse segrete del gioca-jouer e brogli elettorali da Jovanotti For President.

Lei era una Raks da 90’ come tante altre. Grezza. Economica. Nemmeno paragonabile alle TDK da 4 mila e passa lire al pezzo, che mostravano provocanti le cromature dagli scaffali dei supermercati. E aveva una scritta, sul fianco, fatta con un pennarello spuntato, rossa e scura come quelle voglie in cui ci si imbatte nei posti più disparati sul corpo di una donna: “Misto Medal Vol. 1”.

Fecero all’amore per la prima volta con un walkman della BASF grosso come una scatola da scarpe, regalo di una cresima di cui lui non serba altro ricordo, protetti da enormi cuffie di dozzinale spugnotta. Lo rifecero a lungo quella sera stessa, mentre tutti in casa dormivano. E poi, ancora, sul divano in salotto fingendo di fare i compiti di matematica, sul tavolo della cucina di ritorno da scuola, in macchina durante il viaggio per andare al mare con mamma e papà…

Finì un pomeriggio di un giorno d’estate, quando lui la lasciò per troppo tempo nel portaoggetti dell’auto di sua madre parcheggiata sotto un sole che avrebbe cotto una porchetta. Da quella volta, lei non fu più la stessa. Come se qualcosa, in lei, si fosse sciolto per sempre. E vani si rivelarono i tentativo di ricucire lo strappo.

A quel primo, fortissimo amore, ne sarebbero seguiti altri. Alcuni, addirittura, altrettanto forti: polverosi vinili-naviscuola con tanta esperienza, ma ancora piacenti, CD originali acquistati il giorno dell’uscita e posseduti fino a lasciare stremato il laser dello stereo, morbide forme cartonate di stilosissimi digi-pack... Fino all’inevitabile accusa di favoreggiamento della prostituzione con l’avvento della masterizzazione selvaggia.

Tutto, però, è cominciato con quella prima, indimenticata cassetta. Ciò che è venuto dopo è stato soltanto la continua ricerca di quello stesso stupore, di quegli stessi brividi, di quello stesso sentimento.

Never lose that feeling.

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Mio padre ha cominciato a lavorare a 13 anni, lo stesso giorno in cui è finita la scuola, quando mio nonno, sotto forma di enorme calcio in culo, lo spedì in fabbrica senza nemmeno porsi il problema dei compiti per le vacanze. Da allora sono state nove/dieci ore al giorno, per sei giorni la settimana, per cinquanta settimane l’anno, per più di cinquant’anni.

A volte mi chiedo come abbia potuto avere degli amici, conoscere mia madre, concepire dei figli. Ma anche andare in banca e aprirsi un conto corrente, comprarsi un paio di pantaloni, far venire l’idraulico ad aggiustare lo scaldabagno. Forse durante una serrata…

Oggi mio padre è in pensione, e penso che questa cosa, prima o poi, lo ucciderà. Quello che non sono riusciti a fare cinquant’anni di fabbrica, lo faranno un telecomando e un divano nuovo, comprato con la liquidazione.

Quando rientro in casa, la sera, di ritorno dall’ufficio, lo trovo quasi sempre seduto, da solo, a fissare il televisore. Lo saluto, ma lui non mi risponde. Riprovo, a voce più alta, e lui si gira di scatto, come se l’avessi svegliato da un sonnellino pomeridiano, e, quasi impaurito, mi chiede: “Eh?!”.

Fuma troppo e parla troppo poco. E ogni tanto mi ritrovo a pensare che, tutto sommato, mi va bene così.

Qualche volta, più o meno di nascosto, torna di nuovo in officina e lavora per qualche ora, fino a quando le vene varicose e il mal di schiena gli ricordano che il suo posto è là, su quel divano che si è comprato con la liquidazione. E a me un po’ vengono in mente quei cani che, nonostante le botte già prese e quelle che di sicuro ancora prenderanno, tornano dal padrone con lo sguardo fiducioso e le orecchie basse.

Mio padre, oggi, è un uomo non dico spezzato, forse soltanto… boh… “intristito”. Da troppi giorni passati con la schiena curva, prostrato davanti ad una Mecca di camme, utensili e mandrini, da troppo grasso per ingranaggi sotto le unghie, troppe schegge nei polpastrelli e troppe scintille di saldatore negli occhi.

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Quando ero bambino sognavo di fare l’ingegnere.
Passavo intere giornate a giocare con i Lego e mi immaginavo da grande con una lunga coda di cavallo a progettare case e automobili, ponti e aeroplani. Perchè pensavo che non ci fosse niente di più bello del mettere insieme dei pezzi che da soli non servono a nulla e riuscire a costruirci qualcosa che funziona davvero.
Con gli anni ho capito che questa cosa, in realtà, la fa il mio carrozziere, ma allora ero giovane ed inesperto delle cose della vita, e così mi lasciavo crescere i capelli e sognavo di fare l’ingegnere.

Da ragazzo sognavo di fare il dottore.
Sfoggiando una pettinatura imperturbabile (curata, ma non eccessivamente seriosa), avrei scoperto vaccini, debellato epidemie, zinzignato infermiere devote, moltiplicato i pani e i pesci.
E così mi pettinavo accuratamente tutte le mattine, nella speranza di arrivare, un giorno, a dire anche io: “Signora, le serve la fattura?”, col sorriso monello sul viso e l’orologio d’oro al polso.

Al momento di iscrivermi all’università, sognavo di fare l’avvocato.
Mi immaginavo baluardo a difesa dello Stato, delle istituzioni, della società civile e della legge.
E sognavo una bella casa in città e una bella casa al mare. Una bella macchina. Bei vestiti. E un bel ciuffo ribelle da rimettere a posto, con gesto sicuro e sbarazzino, al termine di un’arringa appassionata.

Oggi sogno un mutuo. Decennale. A tasso fisso. Che mi permetta di acquistare una casa decorosa per me e per quella che sarà la mia famiglia.
Sogno di avere sempre soldi a sufficienza per prenotare una visita specialistica senza passare dalla mutua, per avere sempre il serbatoio della macchina più o meno pieno e per pagare le bollette. Sogno la salute per me e per i miei cari. E, perché no, sogno di non morire troppo presto, ma nemmeno troppo tardi.

A volte penso che i miei erano sogni impossibili.
Altre volte che non mi sono impegnato abbastanza per realizzarli.
Altre ancora che è la vita a ridimensionare i sogni.

Ma la maggior parte delle volte non penso a niente, mi misuro la stempiatura allo specchio e mi chiedo: “Ma come è possibile che non abbiano ancora trovato una cura per la calvizie?”.

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Il posto in cui vivo è una strana via di mezzo tra un paese e una città: non abbastanza grande per avere un centro commerciale, ma abbastanza grande per non riuscire a trovare parcheggio.

Non conosco quasi nessuno dei miei compaesani.
Però conosco Camillo.

Quelli come Camillo alcuni li chiamano ritardati, altri “uno che non è tutto lui”.
Per De Gregori sono quelli che trasportano “grandi buste di plastica del peso totale del cuore”. Solo che Camillo s’è scelto come busta un vecchio carriolone, scassato e arrugginito, con cui gira per tutto il paese. Anche se piove. Anche se nevica.

Camillo sorride sempre. A tutti. E se gli dici qualcosa e lui non capisce, beh, allora sorride un po’ più forte.

Quando eravamo bambini, capitava che Camillo passasse davanti al cancello della scuola e la maestra ci aveva insegnato a salutarlo e ad essere gentili con lui.
Tutti, in paese, quando lo vedono passare lo chiamano, e se hanno qualcosa che non usano più, qualcosa da buttare, gliela danno. Lui carica tutto sul suo carriolone e lo porta alla discarica. E tutti gli danno qualche euro. Così, per il disturbo.
Poi ci sono pure i figli di puttana che gli rifilano le vecchie cinquecento lire, oppure quelli che lo prendono in giro: gente per cui occorrerebbe un inferno apposta, molto più doloroso e molto più lungo.

Un po’ di tempo fa ho incontrato Camillo in un negozio di animali. E’ andato al bancone, ha rovesciato sul ripiano non so più quante monete, e ha chiesto del becchime per canarini. Il tipo del negozio gli ha detto: “Camillo, ti ricordi, vero, che oggi è l’ultimo giorno che siamo aperti? Guarda che da domani devi andare da un’altra parte, hai capito?”
Camillo non ha detto niente.
Lo ha guardato in faccia, dritto negli occhi. E ha sorriso un po’ più forte.

“Sono vent’anni che viene qui a comprare becchime per canarini. Tutti i giorni”, mi ha detto il negoziante, quando Camillo è uscito. “Speriamo abbia capito che da domani siamo chiusi…”.

Ci ho pensato parecchio, nei giorni successivi.
Chissà se il giorno dopo Camillo è tornato al negozio. Chissà se ci è tornato il giorno dopo ancora. Chissà quante volte è tornato, prima di capire che quella serranda sarebbe rimasta abbassata per sempre. E chissà se ha trovato un altro posto dove comprare il becchime.

L’altro giorno ho rivisto Camillo.
Era in mezzo alla strada e intralciava il traffico col suo carriolone pieno di cianfrusaglie.
Ad un certo punto, uno di fuori, un forestiero, ha suonato il clacson e lo ha mandato a quel paese.
Camillo si è fermato. Si è voltato. E lo ha guardato in faccia, dritto negli occhi.
E ha sorriso un po’ più forte.

E allora ho pensato che, sì, forse aveva trovato un altro posto dove comprare il becchime.

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Del lotto non me ne è mai importato granchè.
Fondamentalmente perché non ho mai capito come venissero calcolate le vincite.
Ogni tanto qualche mio amico arrivava sventolando la centomila vinta, a suo dire, con un terno secco sulla ruota di Bari, ma io, dentro di me, pensavo: “Per me li ha fregati a sua madre…”.
E poi che palle con sta storia dei sogni con i parenti morti che ti dicono i numeri!
Sognavi la buonanima della bisnonna Antonietta che ti chiedeva di cambiarle il pannolone? 23, la cacca!
Sognavi il prozio Giannino – pace all’anima sua - che farfugliava qualcosa sbavando? 32, la dentiera!
Quando mi sono ritrovato a riflettere su quanto fossero ripide e scivolose le scale della casa di mia nonna, ho capito che il lotto non era il gioco giusto per me.

Perchè a me piaceva il Totocalcio!
Forse molti di voi nemmeno se lo ricordano: le schedine le si compilava al sabato perché allora le partite si giocavano tutte la domenica pomeriggio e per avere i risultati (anche della B) non bisognava aspettare 3 giorni.
Per giocare bastavano mille lire o poco più, e si vincevano cifre che ai tempi facevano sognare: roba che se vinco mollo tutto e apro un chiringuito su una spiaggia a Copacabana!
Oggi, quelle stesse cifre Gerry Scotti te le tira dietro alla quarta domanda de "Il Milionario".

Ecco, a volte ripenso ai tempi del Totocalcio e un po’ mi viene nostalgia.

Oggi c’è Sua Maestà Super Enalotto e tutti sembrano come impazziti.
Il montepremi è sempre più simile al P.I.L: di un piccolo Stato, la gente si mette in coda dal tabaccaio come per prendere l'Eucarestia, e capita che pure al Telegiornale, durante un servizio di cronaca nera, ci sia in sovraimpressione la sestina vincente.
Oggi ci sono i video poker, i veri campioni della catena alimentare dei ciuccia soldi.
Pensati, progettati, costruiti esclusivamente per fottere il prossimo. Eppure possono vantare su una schiera di fedeli devotissimi. Quasi una setta. Gente che trovi ipnotizzata davanti allo schermo già alle 10:00 del mattino e ti viene spontaneo chiederti: “Chissà da quanto tempo è qui…”.

Per dire, ai tempi del Totocalcio, mio padre mi chiamava e io smettevo subito di giocare.
Insieme andavamo al tabacchino vicino casa e lui, con insolita pazienza, mi rispiegava ogni volta cosa volessero dire gli 1, le X e i 2. E io ci mettevo magari mezz’ora a compilare tutte e tre le colonne, ma a lui non importava.
Ordinava un Campari, si accendeva una sigaretta e si metteva a chiacchierare con il tizio al bancone.
Quando avevo finito, gli tiravo una manica della giacca e lui faceva sempre una battuta del tipo: “Si, ma stavolta vedi di vincere, eh?”. E sorrideva.

La domenica pomeriggio ascoltavamo le partite alla radio, in cucina. E ogni partita era importante. Anche, per dire, Sambenedettese – Ternana (1-X). Perché ogni partita poteva essere quella buona, che ti avrebbe regalato il 13 vincente.

Poi non vincevi.
Prendevi la schedina e la accartocciavi. E la buttavi, come fosse carta straccia.
E iniziavi a pensare a quella della domenica successiva...

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Ci sono volte in cui mi sento solo come un’eccezione.

Sono le volte in cui qualcuno mi chiede se ho un profilo Facebook prima ancora di sapere come faccio di cognome, oppure le volte in cui il commercialista prova a spiegarmi perché anche quest’anno dovrò chiedere un prestito per pagare le tasse.

E poi ci sono le volte in cui il telefono di casa decide di non funzionare, e allora devo chiamare l’assistenza col cellulare, spendendo € 0,89 + IVA al minuto, e pesto nervosamente i piedi mentre attendo che la voce registrata mi dica quale numero devo premere per parlare con un operatore.

Sono le volte in cui all’aperitivo tutti si ammazzano attorno al vassoio dell’insalata di riso come morti di fame ed io, fra me e me, penso: “Ma non possiamo andare a mangiarci una pizza, così ci sfondiamo di birra e limoncello?! Lo abbiamo fatto per anni, prima che arrivasse la moda del ”Fare aperitivo”, ed era bello, no?!”.
Ho provato anche a proporlo, qualche volta, a quei pochi della vecchia compagnia che vedo ancora, e loro mi hanno risposto con uno di quei sorrisi tirati ed educati che si fanno quando qualcuno dice una battuta che tutto sommato non fa così ridere.

In questi giorni la zona in cui abito è completamente avvolta dalla nebbia.
La trovo al mattino, quando esco di casa per andare al lavoro, che riposa ancora sdraiata per le strade, e la trovo la sera, quando esco dall’ufficio, colorata d'arancione dalle luci dei lampioni.
Una nebbia così fitta non la si vedeva da anni, da queste parti.
In macchina, la notte, sembra di guidare nel latte. Oppure nell’ovatta. E le altre auto nemmeno le vedi. Non vedi le insegne, le case, le pubblicità. Proprio come se non ci fossero.
E ti viene da pensare che magari tutti gli altri sono già a letto a dormire e che, in quel preciso momento, in giro ci sei soltanto tu e queste specie di nuvole che hanno mangiato troppo e non riescono più a tornare in cielo.

Ecco, quelle sono le volte in cui sentirsi solo come un’eccezione non è poi così male.

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Carissima debaseriana,
caro debaseriano,
simpatica - ma neanche poi tanto - debaseriana in realtà debaseriano,

siamo lieti di annunciarTi l'imminente ripristino della sezione più chiul del sito più chiul di tutto l'internet: la "Classifica dei Casi Umani di Debaser".

Per festeggiare il lieto evento, abbiamo deciso di concedere una possibilità di recupero sociale a tutti quei Casi Umani che, nel frattempo, si sono ravveduti. È, pertanto, con profonda commozione che annunciamo la prima:

"Amnistia dei Casi Umani di Debaser".

Grazie all'esperienza maturata dall'Indulto e da Calciopoli, in data 1° aprile 2009, la Classifica - così come l'hai conosciuta ed amata - verrà resettata. Per ripristinarla, abbiamo bisogno anche del Tuo aiuto! Ecco perché sono ufficialmente aperte le prime:

"Elezioni dei Casi Umani di Debaser"

Compilando l'apposita scheda elettorale, potrai segnalarci i Tuoi tre "Casi più Umani" in ordine di casumanità: il Tuo voto contribuirà a stilare una nuova, entusiasmante, aggiornatissima classifica, in cui verrà indicato anche il grado di Umanità di ciascun Caso.

I Casi Umani sono tanti... milioni di milioni.
Forse lo sei anche tu, e ancora non lo sai.

Aiutaci a riconoscerli. Aiutaci ad aiutarli.

Basta con le ronde, sì allo Stato Sociale del Caso Umano.

Casi Umani di tutto il mondo, unitevi!

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Attenzione, perché quello che state per leggere è un outing.

Ho meditato a lungo sul perché Alessandro Baricco mi stia sulle palle in modo tanto prepotente. Su quanto trovi intollerabile il luccicare degli occhi di mia moglie e delle mie amiche, al solo parlare di lui. Su quanto meticolosamente cerchi ogni piccola imperfezione nelle sue comparsate televisive, nelle sue esibizioni e nei suoi reading - e subito ho nelle orecchie il commento di lei: "E' arrivato l'uomo bello..."
Quanto ho gioito quando l'ho visto ingrassare leggermente, ed ingrigire con il passare degli anni. Con quale misto di stizza ed ammirazione ho consumato le pagine di "Castelli di Rabbia", "City", "Questa Storia". E con quale soddisfazione ho accolto l'uscita di quello stitico raccontino che risponde al titolo di "Seta" (una sventurata mossa editoriale, con ogni probabilità).
Che senso di trionfo, al vedere assieme alla donna della mia vita la mediocre pellicola tratta dal racconto stesso...

La risposta è una sola: invidia. Sono invidioso marcio, detesto tutto ciò che adoro di lui.

Quanto mi piacerebbe arrotolarmi le maniche della camicia con splendida nonchalanche, in un auditorium rovente, accarezzato dagli sguardi di decine di donne adoranti. Chissà se Baricco ha mai arrancato per le scale, portando le sporte della spesa, sotto gli occhi beffardi del vicinato. Sospetto di no.
Quanto mi piacerebbe essere quel maledetto, fantastico affabulatore. Catturare, magnetizzare orecchie sguardi e cuori con la forza delle mie storie, con la mia abilità nel raccontarle. Quanto mi piacerebbe andare in televisione con una maglietta lisa, gli stivali impolverati e i Levi's fetenti, ed essere così incontrovertibilmente, insopportabilmente FIGO. Se mi arrischio una volta a uscire conciato così, incontro prima mia madre, poi la mia maestra delle elementari e infine il mio datore di lavoro e tutti a pensare: "dove abbiamo sbagliato con lui?".
Quanto mi piacerebbe scrivere frasi come: "non sei veramente fregato finché hai una buona storia da raccontare", invece di scrivere insulsi editoriali su un sito web.

E a me che rimane? Il solito campionario di frasi da uomo geloso: "Baricco viene letto perché piace alle donne", "Scrive romanzi di facile presa ma di
poca sostanza", "E' bello, ma purtroppo sa di esserlo".
Ma la verità è un'altra. Lui è Baricco ed io no. E non avete idea di quanto mi rode.

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