Bartleboom

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editoriale di Bartleboom

Il reato di diffamazione è previsto dall'art. 595 del Codice Penale, che punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione.
In pratica, se io dico pubblicamente che Tizio è, chessò, un "citrone" (da intendersi come qualsiasi offesa pesantissima che vi viene in mente) commetto un reato.
Tanto per chiarire: per "pubblicamente" si intende che la mia affermazione è idonea a raggiungere almeno 2 persone oltre l'offeso.

Bene.
Fino a qualche anno fa, se un qualsiasi utente vi avesse dato del citrone su Deb, non avreste potuto fare nulla.
Meglio: lo avreste anche potuto denunciare e/o citarlo in giudizio per chiedergli i danni, ma molto probabilmente non se ne sarebbe fatto nulla: il PM avrebbe chiesto l'archiviazione e l'Avvocato della difesa avrebbe avuto gioco facile nel sostenere che, in realtà, non c'era alcun danno concretamente risarcibile.
Perché internet era roba per reghezzini, una giungla dove più o meno tutto era concesso, che tanto lì mica ci sono le cose serie.

Ultimamente, però, le cose stanno un po' cambiando.
Nel senso che sempre maggiore attenzione viene riconosciuta anche a ciò che succede sull'internet.
In pratica, è ormai ritenuto pacifico che ciascuno di noi viva un'esistenza "virtuale", fatta, alla pari di quella "reale", di relazioni, legami, dinamiche e, perché no, reputazione.
E visto che, da un lato, rappresenta una fetta sempre maggiore della nostra quotidianità e, dall'altro, spesso finisce per avere ripercussioni sull'esistenza reale, questa "esistenza virtuale" deve ritenersi meritevole tutela.
E il motivo di questo cambiamento è tra i più banali: una bella fetta di giudici, sia civili che penali, è gente di 35-40 anni. Gente, cioè, che ha dimestichezza con lo strumento informatico, è iscritta ai social network, partecipa a forum, segue o addirittura scrive su blog. Gente, quindi, che SA perfettamente cosa vuol dire trovare sul proprio diario FB un commento diffamatorio o avere a che fare con un troll o un molestatore che fa girare mail del cazzo sul tuo conto.

Nei primi anni di frequentazione di debaser (si parla del 2004-2005), mi è capitato spesso di leggere commenti di questo tipo:
Utente A: "Io su questo sito c'ho una certa reputazione!"
Utente B:" Ma quale reputazione, citrone! Che reputazione vuoi avere su un sito internet!?!"
Al tempo, ero solito dare ragione all'utente B.
Oggi come oggi, però, non ne sarei poi tanto sicuro…

Facciamo un esempio.
Io, sig. Bartolomeo Boom, sono su questo sito da circa 9 anni.
Ho scritto recensioni che sono state bene o male apprezzate, sono stato parte attiva dello staff editante, diversi utenti sono miei amici nella vita reale, molti hanno il mio numero di cellulare, alcuni hanno dormito a casa mia.
Insomma: io qui ci sto bene, mi diverto, voglio bene a molta gente e molta gente (penso) mi vuole bene.
Debaser, così come i forum, i siti in cui ci si registra e si lasciano commenti, sono a tutti gli effetti delle micro comunità: se le si frequenta per un periodo sufficiente di tempo, si imparano a riconoscere le personalità e i gusti degli altri utenti, le dinamiche relazionali, gli equilibri.
Questa cosa ha degli effetti senz'altro positivi, perché, ad esempio, ormai so che se un disco o un film piace a Caz o a Nes, quasi sicuramente piacerà a anche a me.
Ma questa cosa ha anche degli effetti "negativi", perché ormai se vedo in HP una recensione di Minogue33, o come cacchio si chiamava quello là che non si fa vedere da un po', già so che ci troverò delle puttanate da togliere il fiato.
E questa, secondo me, non può che definirsi "reputazione".
Magari una forma più blanda di quella che ognuno di noi ha nel mondo reale, ma comunque "reputazione".

Facebook, poi, ha contribuito a rompere quella sorta di "quarta parete" o come cavolo si chiama quella roba lì, che separa(va) Bartleboom e "Mario Rossi", tant'è che credo che la stragrande maggioranza degli utenti ormai sappiano quali siano i miei veri nome e cognome, che lavoro faccio, dove abito, la mia situazione sentimentale e robe del genere.
In pratica, si può legittimamente sostenere che Debaser sia parte integrante non solo della mia esistenza virtuale, ma anche della mia vita reale.

Diciamo che domani arriva un qualsiasi utente e si mette a scrivere falsità su di me, inteso come utente Bartleboom. Mi offende, mi denigra, mi accusa ingiustamente di non so immaginare quale porcheria (tengo a precisare sin d'ora: non sapevo che quell'iguana fosse maschio e, in ogni caso, mi aveva detto di essere maggiorenne…).
Beh, per come stanno le cose, secondo me il reato di diffamazione è configurato di brutto.
E, sempre secondo me, avrei pure diritto ad un risarcimento.

Sono stato offeso pubblicamente in un contesto, una comunità (Deb) in cui, che piaccia o no, ho finito per crearmi una "reputazione".
Magari il fatto mi porterà a non volere più frequentare un sito che mi ha sollazzato per anni. In pratica, sarò costretto a rinunciare - contro la mia volontà - ad un'attività che mi dava piacere.

Che magari può sembrare comunque una cazzata, ma se davvero, per colpa di qualche cretino, non potessi più mettere piede qui dentro, le balle mi girerebbero non poco.
Poi magari non farei mai causa o non presenterei mai una denuncia. Ma questo non significa che non ci sarebbero i presupposti per farlo.

Ho fatto l'esempio della diffamazione perché è quello più tipico e frequente, ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto anche per altre ipotesi di reato, tipo l'ingiuria, le minacce, lo stalking etc.

Tutto questo per dire cosa?
Mah, tutto e niente.
Lo spunto per scrivere mi è venuto da un commento letto da queste parti qualche giorno fa, in cui un utente un po' citrone, millantante il titolo di avvocato, sosteneva di vare fatto "partire" (?!?) una denuncia per "diffamazione pubblica" (?!?) e tutti lo avevano sfottuto di brutto.

Ebbene, io dico: non succede perché non succede.

Ma se succede…

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Da qualche parte, nella primavera del 1998…

Io, Anna e Jenny siamo amicissimi e, da un po’ di tempo, ci facciano un sacco di scherzi.
Difficile dire quale sia stata la scintilla che ha dato fuoco alle polveri. Sta di fatto che siamo nel pieno di un’escalation di puttanate che, a confronto, un comizio di Borghezio è un simposio di teologia organizzato dalle edizioni Paoline.

Ho da poco subito uno scherzo e, così, per vendicarmi, mi metto d’accordo con la professoressa di italiano: in pratica, dovrà entrare in classe con aria molto severa e, inventandosi una roba tipo “Mi sono accorta di non avere abbastanza voti per le presentazioni alla maturità”, fare finta di interrogare a sorpresa Anna e Jenny.
La prof accetta di buon grado, ma, purtroppo, si fa un po’ troppo prendere la mano e quella che doveva essere una finta per farsi due risate si trasforma nell'umiliazione pubblica di due ragazze impreparate, che, ad un certo punto, pensano davvero di avere rovinato tutto il lavoro di un anno.

Inutile dire che non fu quello che volevo.
Inutile dire che spiegai l’accaduto e porsi loro le mie più sincere scuse.
Inutile dire che si vendicarono.

È passato giusto qualche giorno dall’interrogation-gate. Anna e Jenny recuperano una mia foto di qualche mese prima, scattatami durante una gita epicissima a Berlino, in cui, sarcacchio per quale motivo, tengo in mano con espressione effemminata un carciofo. Ispirate da una pubblicità dell’Esselunga molto in voga a qual tempo (“Topolino o ravanello”, “Ballerina o carote?”), la utilizzano per preparare dei piccoli manifesti con la scritta “Carciofo o finocchio?”. Infine, radunano mezzo liceo e, nottetempo (ovviamente a mia insaputa), li appendono ad ognuno degli oltre cento tigli che costeggiano il lungo viale che porta alla nostra scuola.

Il mattino dopo arrivo bello fresco e senza sospettare nulla, parcheggio il mio Sì Piaggio nel posto dei veri fichi, entro dalla porta principale come se nulla fosse… e vengo preso per il culo da tutta la scuola.
Professori e bidelli compresi.

Grandi risate. Pacche sulle spalle. E se ci si ritrova dopo vent’anni per la pizzata di classe del liceo ce lo si ricorda e si ride un sacco come la prima volta e pure deppiù.

Giovedì 26 settembre 2013, alla Camera dei Deputati del Parlamento italiano, si discute di omofobia.
A quanto ho capito, il motivo è che il giorno prima il sig. Barilla ha dichiarato che lui non ha nulla contro gli omosessuali e che, per quanto lo riguarda, possono senz’altro continuare a picchiarselo in culo che tanto a lui piace la gnocca (basta che non sia di Giovanni Rana).
Solo non è ancora il momento di usarli per fare la pubblicità della pasta.
Al massimo si potrebbe fare un’eccezione per le orecchiette.

Dicevo, i rappresentanti del Popolo Sovrano sono lì che si fanno un culo così (oops!) a parlare di omofobia. Il deputato di SEL, Alessandro Zan, gay dichiarato, ha da poco terminato il proprio intervento quando Gianluca Buonanno, classe 1966, mente tra le più illuminate dell’organo (oops!) legislativo e che, pensa un po’, è pure leghista, tira fuori chissà da dove (oops!) un finocchio (nel senso di vegetale) e lo appoggia sul banco.
Segue parapiglia d’ordinanza, dolce, caffè e ammazzacaffè.

Giro sull’internet, e scopro che solo qualche settimana prima lo stesso Buonanno si era fatto notare per avere etichettato sempre i membri (oops!) di SEL come “Lobby dei sodomiti” (tra l’altro al termine di una circonvallazione logico-retorica che ancora oggi se ci ripenso mi provoca labirintite, spasmi e voglia di mandarlo 'affanculo, ma lasciamo stare).

E io vorrei dire a Buonanno e a tutti quelli che battevano le mani come le scimmie con i cimbali: ma non vi sentite vecchi-vecchissimi?

Cioè, Buonanno, tu hai 47 anni, sei sopravvissuto ai paninari, all’electro pop anni ’80, al karaoke con Fiorellino, ai telefilm demmerda anni ’90, alla mucca pazza, all’11 settembre, allo tsunami, a Windows Vista e alla sintonizzazione del decoder per il digitale terrestre.
Hai vissuto sulla tua pelle l’internet 2.0, la globalizzazione, l’outing di George Micheal (si sapeva) e Ricky Martin (non si sapeva!) , la venuta degli smartphone, le pubblicità di Intimissimi, il primo presidente degli Stati Uniti nero…
E non hai imparato un cazzo?

Il mondo ti verrà a prendere, Buonanno.

Te e tutti quelli che sono ancora fermi a quando nel mio paesello padano c’era chi appendeva cartelli con scritto “Non si affitta a veneti e meridionali” e poi si è trovato la propria figlia gravida di uno che di cognome fa Vendramin o Terracciano.

Il mondo non butterà giù la porta con una spallata. Non ci saranno esplosioni, botte o spari.
Entrerà dalla finestra o te lo ritroverai già accomodato sul divano che ti aspetta per un thè al bergamotto (che per un leghista è il massimo).

Sarà tuo figlio che ti confesserà di essere gay.
Sarà il tuo capo che ti inviterà a cena a casa del suo compagno e tu dovrai fare la bella faccia e continuare a leccargli il culo (sì! Proprio il culo! Oh oh oh!).
Sarà il tuo migliore amico che un giorno ti dirà: “Ho lasciato Barbara e adesso sto con Cinzio”.

Forse, allora, capirai che il finocchio non è neppure il peggiore dei mali che ti può capitare.

Perché, al contrario del carciofo, almeno non ha le spine.

(immagine by Katherine Sandoz, Salted & Styled-Fennel)

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Il mio kebbabaro di fiducia si chiama…

A dir la verità non lo so.

Nel senso che gliel’ho chiesto un po’ di volte, ma non sono mai riuscito a ricordare e/o a pronunciare correttamente il suo nome.
E così, prima che tutta la faccenda cominciasse a diventare una roba antipatica, abbiamo raggiunto un tacito accordo per cui io non lo correggo quando lui mi chiama (erroneamente) “Mario” e io mi sforzo ogni volta che ci parlo di non usare il suo nome proprio.
Per questo motivo, e ai soli fini di questo editoriale, il mio kebabbaro di fiducia si chiamerà “Rahaal”, che è il nome di un mio amico marocchino e che, quindi, non sarebbe proprio adatto per indicare un turco, ma questo è quello che passa il minareto.

Fatte le presentazioni, è necessaria una precisazione.

Bartletown è un poco più di un paesottone.
Siamo meno di ventimila anime, sparse su un territorio poco più grande di un paio di campi da calcio regolamentari. Roba che è già una fortuna se quando esci dalla doccia non ingravidi per sbaglio la tua vicina di casa o una qualche tua cugina di secondo grado.

A Bartletown abbiamo tutto. Solo che ce l’abbiamo in un unico esemplare.
Abbiamo LA chiesa, IL bar, LA edicola, IL supermercato.
E poi c’è IL panettiere, IL dottore, IL farmacista.
Facciamo un’eccezione solo per GLI stronzi.

Quando, un paio d’anni fa, Rahaal ha aperto “House Kebap” su una delle strade principali del paese, in molti hanno storto il naso. Non dico che IL prete abbia lanciato un qualche anatema durante LA Sacra funzione domenicale. Però capite anche voi, che per una cittadina in cui l’evento più eccitante è stato IL rifacimento del ciottolato nella piazzetta davanti al Municipio nel lontano 2003, l’apertura di un kebabbaro ha rischiato di assumere i connotati dell’invasione da parte delle armate di Saladino.

Tutto questo per dire che, perlomeno nei primi tempi, non è che girasse tutta sta gente da House Kebap…

Io ci sono capitato per la prima volta un venerdì notte di un annetto fa, dopo una serata epica di cui non ho alcun ricordo a parte una tenace infezione alle vie urinarie che conto di riuscire a debellare con giusto un altro paio di cicli di cortisone.
In breve: è tarda notte e sono vittima di una fame da fine serata mostruosa, quando ad un certo punto mi compare davanti un’insegna luminosa con un panino gigante e il Taj Mahaal sullo sfondo. Solo oggi, a distanza di tempo, mi rendo conto che il Taj Mahaal non c’azzecca veramente una mazza con il kebab, ma, al momento, l’unico concetto che sono riuscito a sintetizzare nella mia testa è stato più o meno: In natura, nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto è kebab + Taj Mahaal.

Entro e mi becco Rahaal, un ometto sui cinquant'anni con la faccia simpatica e gli occhi buoni, che guarda sconsolato la televisione italiana evidentemente senza capirci un cacchio. Ordino un kebab con ogni condimento possibile e immaginabile, compreso lo sgrassatore per il banco e l’olio esausto per le patatine, Rahaal mi fa notare che il locale sarebbe già chiuso da un quarto d’ora e che stava giusto spegnendo tutto, io scoppio a piangere come un bambino, lui si impietosisce e mi prepara una roba che non è un kebab: è il tuo piatto preferito di sempre, cucinato da tua madre il giorno del tuo ottavo compleanno quando ti hanno regalato la scatola grande dei Lego.

Quella prima sera non abbiamo parlato granché, io e Rahaal. Essenzialmente perché avevo la bocca talmente piena di salsa yogurt che sembravo una vecchia pubblicità della Danone.
Dopo quella prima sera, però, ho iniziato a fermarmi da House Kebap almeno una volta la settimana.
E, dopo le prime settimane, ho iniziato ad andarci anche se non dovevo mangiare: lasciavo la macchina in divieto di sosta con le quattro frecce, buttavo dentro la testa e chiedevo a Rahaal come stava. Lui mi sorrideva forte e diceva qualche cosa di internazionalmente irripetibile sulle tasse e/o su Berlusconi. Io ridevo di gusto e me ne tornavo a casa contento.

Oggi House Kebap è quella che si potrebbe definire un’attività commerciale di successo. Dopo l’iniziale diffidenza, i mie compaesani scimuniti si sono accorti che con € 3,50 ti puoi mangiare un kebab buonissimo e conditissimo che ti toglie la fame chimica e ti fa tirare delle scoregge che tengono lontani zanzare, pappataci e parenti indesiderati fino alla settima e ottava generazione. E così, oggi come oggi, dal venerdì alla domenica, dalle 19:00 alle 21:00, se vuoi un kebab da House Kebab devi mettere in conto almeno mezz’oretta di attesa.

E io ho sinceramente temuto che la fama e la gloria avrebbero cambiato Rahaal e il nostro rapporto. Temevo che non si sarebbe più ricordato di me o del condimento speciale per il mio il panino, che non avrebbe più avuto tempo per dire le sue battute quando passavo dentro a salutarlo senza comprare niente…
Poi, però, l’altro giorno sono ripassato da House Kebap dopo parecchie settimane di assenza. Era domenica sera, all’ora di cena, e il locale era affollatissimo. Ad un certo punto, Rahaal, da dietro il bancone, ha alzato la testa e, quando mi ha visto, ha subito sorriso fortissimo. È andato al lavandino, si è sciacquato le mani e, strafottendosene della gente in coda che smadonnava, è venuto da me per salutarmi.

Lo lo so che la globalizzazione fa schifo e che se avessi davvero a cuore il destino della mia cultura e delle mie tradizioni enogastronomiche dovrei avere la tessera di Slow Food e andare a lanciare le caciotte scadute sulle vetrine dei ristoranti che fanno l’all you can eat. Lo so che, con tutto il ben di Dio che i nostri frigo ci offrono, pensa un po’ se devo andare a mangiare 'ste schifezze che poi sudi al sapore di cipolla per tre giorni.

Però penso che, tutto sommato, in mezzo a duemila Mc Donald’s e seicento Burger King e duecento Old Wild West, magari un posticino per House Kebap lo si può trovare.
Penso che, magari, una globalizzazione a misura di kebabbaro tanto male non può farci. Penso anche che, se in questi tempi grigi sto paese di merda può essere ancora una buona occasione per qualcuno, non mi dispiace che lo possa essere per gente come Rahaal.

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Enrico Letta, 17 settembre 2013:

“Con il recupero della Costa Concordia abbiamo dimostrato a tutto il mondo che cosa è in grado di fare la tecnologia, la volontà e l’efficienza italiana.”

Una volta, da bambino, ho combinato un casino.

Mia madre aveva messo a bollire il minestrone. Poi, non mi ricordo più per quale ragione, si era dovuta allontanare da casa: sarebbe tornata il prima possibile, ma proprio non poteva fare a meno di lasciarmi da solo per qualche tempo.
Al momento non ci ho nemmeno pensato, ma è stato un bell’atto di fiducia da parte sua. Non fosse altro perché alla pagina 1, riga prima, del Manuale delle Giovani Mamme Marmotte si trova scritto: “Non lasciare mai tuo figlio in età scolare a casa da solo con il fornello acceso. Soprattutto se è destinato ad ascoltare heavy medal fino a trent’anni suonati e ad avere un collezione di porno che manco l’autobiografia di Riccardo Schicchi.”

Vabbeh, è inutile tirarla troppo per le lunghe, tanto sapete già come è andata a finire.
In pratica, appena mia madre si chiude la porta di casa alle spalle, io mi fiondo a fare le mille e una cose divertentissime che si fanno da piccoli (ehm…) quando si è a casa da soli: vedere quanta carta igienica si riesce a fare andare giù prima di otturare il cesso, puciare le macchinine nell’alcool e darci fuoco, fare la pìpì dal balcone, eccetera.
Dopo circa mezz’ora che mi diletto della grossa, ecco che un forte odore di bruciato proveniente dalla cucina attira la mia attenzione. Incuriosito, vado a controllare e…

Disastro!

L’acqua nel pentolone si è completamente prosciugata! Le verzure della valle degli orti sono carbonizzate! Tutta la microcucina della BartleMagione è piena di fumo che la puoi usare come set per la pubblicità della Philip Morris.

Immediatamente un pensiero (peraltro piuttosto precoce per un bambino della mia età), trova albergo nella mia mente: “La mamma mi incula”. Subito seguito da: “Ma no! Io sono il frutto dell’amore carnale tra Ella e mio padre! Lei mi ha generato! Lei mi ama!” Tosto sostituito da: “No, no. Mi incula”.

Occorre agire!

Tempo pochi secondi e mi metto all’opera.
Spengo il fornello. Prendo la pentola e la metto sotto l’acqua fredda.
Spalanco tutte le finestre di casa. Gratto via le verzure carbonizzate dal fondo della pentola e le butto nella pattumiera coprendole con altra monnezza in modo da passare inosservate ad un controllo superficiale. Lavo a fondo la pentola e la riempio di acqua calda del rubinetto. Prendo un’altra busta di minestrone dal freezer e la metto a bollire.
Infine, spruzzo deodorante per tutta la casa come se non ci fosse un domani o come se il buco nell’ozono fosse una diceria messa in giro dalla multinazionali farmaceutiche e da Roberto Giacobbo.

Tempo dieci minuti e già me la sbulleggio di brutto: “Non se ne accorgerà mai…”.
Altri dieci minuti e torna mia madre.

Non fa in tempo a mettere tutti e due i piedi in casa che mi arriva uno schiaffo a mano aperta che probabilmente se oggi sono così scemo tutto è partito da lì. E il motivo è presto detto: la puzza di bruciato si sentiva a qualche isolato di distanza e mia madre aveva già capito tutto dall’androne del palazzo.

Disfatta. Scorno. Delusione. Dolore. Lacrime grosse come cedri mi solcano le guance. Il mio piano crollato come il più fragile dei castelli di carta… Ma, quando tutto pareva perduto, quando ormai la mia autostima stava per raggiungere il primo dei suoi minimi storici, ecco che mi vengono rivolte parole di conforto: “Beh, però sei stato bravo a mettere su dell’altro minestrone…”.

Io non so se sia stata colpa di Schettino, della moldava che glielo succhiava quando è successo il casino, della Guardia Costiera che non ha vigilato, di tutti quelli che sapevano di ‘sta puttanata dell’inchino, e si sono limitati a pensare che era una roba figa.
Però sulla Costa Concordia sono morte delle persone. Alcuni corpi non sono ancora stati ritrovati. E io non ci vedo davvero nulla per cui essere orgogliosi.

La frase di Letta che ho citato mi ha procurato un fastidio quasi fisico.
Perché è come se ci si fosse pavoneggiati per avere messo un bel cerottone su una gamba amputata per sbaglio col tosaerba.
Che poi, no. Non è nemmeno quello che mi fa così incazzare. Il motivo per cui non guarirò mai del tutto dal mio reflusso gastrico è l’ostinazione con cui cerchiamo attenuanti alla nostra incapacità. È il “volemose bene", che, sì, magari facciamo schiantare le navi per fare i guitti, ma siamo dei geni a disincagliarle.

Quello che davvero mi urta è l’autoindulgenza.
L’autoindulgenza di un popolo e di un paese sempre più inetti, sempre più ingiustificabili.
Un popolo e un paese che non hanno ancora capito (o fanno finta di non avere capito) che i bravi bambini non sono quelli che prendono un’altra busta dal freezer, ma quelli che il minestrone non lo fanno bruciare.

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"Ogni uomo, per essere felice, dovrebbe avere un pizzaiolo, un kebabbaro e un negozio di dischi di fiducia”
(Anonimo Bartolomeo, 2013)

Il mio pizzaiolo di fiducia si chiama Geppino, all’anagrafe Giuseppe Tortorella (nome di fantasia, ma magari anche no), classe 1940, emigrato negli anni Sessanta da Caianello (CS), titolare del Ristorante Pizzeria “Il Veliero d’Oro” di Bartletown.

E’ stato per anni il pizzaiolo di fiducia di mio padre, finché il diabete, il cardiologo e mia madre che ci scassa la minchia a tutti con ‘sta storia che si mangiano troppi carboidrati, hanno deciso che il mio vecchio, in pizzeria, non ci doveva più mettere piede.
E così, oggi, Geppino è il MIO pizzaiolo di fiducia.

La storia di Geppino è uguale a quella di tanti altri “saliti al nord”. Valigia di cartone, italiano stentato, tutti che ti chiamano “uè tèrùn”, cento figli da mandare a scuola. Poi viene fuori che fai una Napoli che è pura poesia, la moglie se la cava in cucina, la figlia più grande la metti alla cassa, il figlio disgraziato a servire ai tavoli anche se sono più i piatti che rompe di quelli che riesce a servire.
E allora va a finire che ti puoi permettere di comprarti un posto che è solo tuo.
E finisce che la gente ti conosce e ti vuole bene e ti viene a trovare.

La storia di Geppino, dicevo, è uguale a quella di tanti altri.
Però a me piace un po’ di più delle altre.
Perché lui non la racconta mai.
Perché è vera.

Notizia dell’ultimo mese o giù di lì: Geppino ha venduto “Il Veliero d’Oro”.
Ai cinesi.

Quando me l’hanno raccontato non ci volevo credere e così settimana scorsa ho buttato dentro la testa con la scusa di una Bufalina e una Capricciosa col salame piccante e sono riuscito a scambiare quatto parole con Geppino.
In pratica funziona così: la figlia s’è sposata e il marito s’è rotto le palle che lei rientra all’una di notte sei giorni la settimana, il figlio ormai ha finito l’università e di rimanere a lavorare in pizzeria non se ne parla, Geppino e la moglie hanno settant’anni e sono stanchi.
Poi le tasse sempre più alte, i controlli dell’ASL sempre più rigidi, il commercialista, i dipendenti che guai a chiedergli di fare mezz’ora in più…
Tutto troppo difficile, tutto troppo complicato.

Mio padre dice che se le cose vanno a rotoli è colpa della mia generazione di ultratrentenni sfaccendati e bamboccioni, senza spina dorsale e senza spirito di sacrificio. Mia madre dice che è colpa della crisi, della kasta, del governo (ladro). Mia sorella che è colpa dei musi gialli che non muoiono, dei pakistani che dormono in venti in un appartamento senza pagare l’affitto, dei marocchini che si ubriacano, degli albanesi che stuprano le nostre donne e saccheggiano i nostri villaggi.

Io non so nemmeno se c’è, una colpa.
Figuriamoci se so di chi è.

Però mi piacerebbe riuscire a pensare che dietro ai nuovi proprietari, dietro quelle facce giallognole più o meno tutte uguali, dietro quei sorrisi un po’ ebeti di chi non capisce mai veramente del tutto quello che gli stai dicendo, dietro quelle cucine sistematicamente impresentabili, ci possano essere storie come quella di Geppino.

Forse non basterebbe a rendere la loro Napoli altrettanto buona.
Ma almeno renderebbe il tutto un po’ meno triste.

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A pensarci bene le pistole non mi sono mai piaciute.

Per chi, come me, è nato a fine anni ’70 ed è cresciuto succhiando raggi gamma direttamente dalle poppe esplosive di Venus Alfa (la moglie di Mazinga, per i profani), durante gli anni dell’infanzia la polvere da sparo rappresentava un’invenzione tutto sommato priva di vero fascino. Insomma: se proprio “arma” deve essere, che sia perlomeno un robot trasformabile che posso guidare muovendo due leve del cacchio mentre una tipa superpopputa dal nome gonfia-mutanda tipo “Sashiko Ayakawa” osserva le mie gesta con un misto di apprensione ed eccitazione al sicuro dall’interno della base ultimo baluardo dell’umanità minacciata dagli alieni provenienti dal pianeta Gasparrix III.

Nel mio caso, poi, uno dei più brutti ricordi della mia fanciullezza è legato ad una scena di un film dal titolo sconosciuto, in cui un povero soldato (sicuramente americano e sicuramente impegnato nella lotta contro i nazisti e/o i comunisti) rimaneva orrendamente sfigurato a causa dell’inopinabile esplosione del suo fucile.

Se poi ci aggiungiamo il fatto che mia madre mi ha imbottito di morale evangelico-animista sin dalla fase anale (quella infantile, s’intende. Non quella che ci si scopre a vivere più o meno intorno ai 34 anni, quando ti ritrovi annoiato a morte in casa da solo e tua moglie è al supermercato e non tornerà prima di un paio d’ore, poi, però, rientra in anticipo perché ha lasciato a casa il cellulare e ti trova a gambe all’aria sul divano buono del salotto con la sua spazzola preferita infilata nel culo…), dicevo, se poi aggiungiamo il fatto che mia madre mi ha cresciuto con la filosofia del “piuttosto che fare del male agli altri, fallo a te stesso” (giuro), ecco che si capisce perché da piccolo non mi piacevano le pistole.

Inutile stare tanto a disquisire se mi piacessero le armi durante la pubertà o l’adolescenza. Essenzialmente perché ogni ricordo che ho del periodo tra gli 11 e i 17 anni mi trova seduto da qualche parte a controllare se è proprio vero che non ci si può staccare da soli il birillo e furia di pugnette.
Meglio, quindi, passare direttamente all’età della ragione: età di grandi riflessioni, grandi decisioni e, conseguentemente, grandi delusioni.

Mi è capitato di sparare, qualche volta, pur non avendo fatto il militare.
E non mi è piaciuto.

La pistola ha un peso strano, che nessuna bilancia riesce del tutto a misurare. Un peso compensato solo in parte dalla fregola che ti viene al pensiero di quanto potere ti può dare quel pezzo di ferro. A me quel peso ha sempre fatto cagare e, dopo le prime volte in cui ho accettato - essenzialmente per spirito di emulazione – di andare ad un poligono, ho preferito declinare educatamente l’invito e starmene a casina bella ad aspettare che la mia fidanzata andasse al supermercato per annoiarmi un po’ sul divano del salotto che tanto lo abbiamo preso all’IKEA per pochi euri.

Tutto sto pippone per dire cosa?

Più o meno questo:
… Non credo sia concepibile una civiltà umana senza armi.
… Tutto sommato penso che, in un contesto politico-istituzionale internazionale come quello in cui viviamo, gli Stati debbano avere un proprio esercito.
… Se fino a qualche anno fa l’idea che un privato cittadino potesse detenere legittimamente un’arma in casa non mi non dava grande fastidio, negli ultimi tempi sto maturando l’opinione contraria.

E’ che mi sono veramente rotto le palle di tutte 'set storie di bambini di cinque anni che “approfittando di un momento di distrazione del padre che stava pulendo in cucina un M-16 da assalto modificato con l’aggiunta di mirino telescopico e lanciagranate, ha impugnato l’arma e ha fatto fuoco uccidendo l’intera famiglia di sedici persone. Il piccolo si è quindi barricato nel recinto della sabbia ed è stato arrestato solo dopo l’intervento dei berretti verdi. ”.

Che poi lo so che c’è tutto dietro un mega-lavaggio del cervello di quello sbiancato di Obama che la vuole mettere nel popò alle lobby delle armi repubblicane e quindi stanno facendo una compagna di demonizzazione pazzesca delle armi e adesso tutti i giorni c’è qualche bambino che spara alla mamma, alla sorella, al cane, a se stesso, eccetera eccetera eccetera.
Però penso anche che alla base del principio – peraltro decisamente strumentalizzato - per cui “Ogni cittadino deve potersi difendere” c’è soprattutto una sconfitta. La sconfitta di uno Stato che, molto semplicemente, non è in grado di difendere i propri cittadini.

Vi lascio con una citazione. Semplice, tutto sommato banale. Ma che – forse – un fondo di verità ce l’ha:

"“Nell’ultima riunione del comitato della Zona Libera, Hugh Petrella aveva chiesto e ottenuto di poter armare i suoi aiutanti. All’inizio di giugno un ubriaco aveva malmenato uno dei poliziotti e l’aveva scaraventato dentro una vetrina del Broken Drum, un bar di Pearl Street. Il poliziotto aveva avuto bisogno di più di trenta punti e di una trasfusione. Petrella aveva sostenuto che questo non sarebbe mai successo se il suo uomo avesse avuto una Police Special da puntare contro l’ubriaco. C’era molta gente convinta che se il poliziotto avesse avuto un’arma, l’incidente si sarebbe concluso con un ubriaco morto anziché con un poliziotto ferito.”
"

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editoriale di Bartleboom

Alla batteria ci metterei senz’altro “E.”.
Ci eravamo conosciuti a sei anni, al corso di mini basket. Nel tempo siamo rimasti amicissimi, fino a condividere i gusti musicali e il sogno di diventare - a nostro modo -musicisti.
Solo che una batteria costa un frego di soldi, ci vuole un posto dove tenerla e, soprattutto, a meno che non abiti nella zona desertica compresa tra Lonate Ceppino e Peveranza di Cairate, al primo colpo di rullante i vicini chiamano l’ARPA e tuo padre si mette a smadonnare come neanche l’indimenticato Germano Mosconi. E, così, quando alla fine io e un altro paio di pulciosi siamo riusciti a procurarci chitarra e basso, “E.” si è comprato delle bacchette da centomila lire e ha iniziato ad esercitarsi con i cuscini del divano buono della sala.
Poi, al sabato pomeriggio, si andava tutti in sala prove a fare le cover dei Black Sabbath e lui picchiava come se non ci fosse un domani.
O come se non ci fosse altra batteria su cui picchiare.
Che poi era proprio così.

Alla chitarra solista ci metterei “D.”.
A diciannove anni aveva lasciato casa dei genitori ed era andato a vivere al limitare di un piccolo bosco, in una baracca di cemento in mezzo ad una discarica di marmo: trenta metri quadri circa, in cui “D.” era riuscito a ricavare soggiorno, angolo cottura, soppalco con zona notte, bagno e - soprattutto - sala prove.
Possedeva in totale quindici dischi (giuro), tra cui un greatest hits di Bob Marley e uno di Bruce Springsteen. Se gli parlavi di Vasco o di Ligabue, ti diceva una roba del tipo: “Con la roba che fanno, non sfonderanno mai.” (…).
Tecnicamente impresentabile, millantava una mai del tutto confermata frequentazione di un non ben precisato corso di chitarra latino-americana, che, a suo dire, aveva lasciato un segno indelebile sul suo chitarrismo naif.
Il suo motto preferito era: “A tutti piace bere il latte fresco. Ma nessuno vuole svegliarsi alle quattro per andare a mungere la vacca”.
A distanza di dieci anni rimane uno dei più grandi insegnamenti che un essere umano mi abbia mai regalato.

Al basso ci metterei “F.”.
Conosciuto sui banchi del liceo come tipo timido e abbastanza pacato.
Lo costringemmo a comprarsi un basso da cinquantamila lire quando fu chiaro che non avremmo trovato un bassista disposto a venire a suonare con noi nemmeno chiedendo la grazia a Santo Lemmy.
Dopo l’iniziale impaccio, “F.” si rivelò un musicista dotatissimo.
Inutile dire che iniziò presto a darsi arie da gran virtuoso e a dedicarsi anima e cor(d)e ad una non meglio precisata “estetica musicale” al cui cospetto noi altri poveracci facevamo la figura degli scimmioni di 2001 Odissea nello spazio.
Altrettanto inutile dire che, nel giro di breve tempo, fondammo un coro di voci bianche con cui mandarlo affanculo, lui e i suoi virtuosismi di sta ceppa. Oppure fu lui a mandarci affanculo. Difficile dirlo.

Alla voce ci metterei “M.”.
Un genio, ma senza scherzare.
Praticamente un distributore automatico di testi.
Gli facevi sentire un riff, gli dicevi una roba del tipo “Vorrei che questa canzone parlasse del difficile momento in cui hai un attacco di cagotto tipo Horishima più Nagasaki e non trovi le chiavi di casa”, e lui tirava fuori da qualche parte una linea vocale e un testo che tu non potevi fare a meno di pensare: “Questo è un genio.”.

Alla chitarra ritmica ci metterei… beh, a dir la verità, ci metterei il sottoscritto.
Perché ad un certo punto della mia vita c’ho creduto davvero alla possibilità non dico di fare il musicista, ma almeno di imparare a suonare uno strumento. In maniera dignitosa, perlomeno.
E poi un giorno finisco un puzzle, decido di metterlo in una bella cornice, prendo una lastra di vetro, la lastra si spezza, le schegge mi si conficcano nelle dita, vado al pronto soccorso, mi mettono dei punti e da allora ho poca sensibilità nei polpastrelli e, oggi, per me, avere in mano un plettro o una zappa è più o meno lo stessa cosa.

E non dico che i miei sogni siano andati in frantumi insieme a quella lastra di vetro…
Non fosse altro perché è capitato troppo presto, o comunque prima che dentro me si facesse strada la voglia di crederci davvero, di provarci.
Non fosse altro perché la vita mi ha portato da tutt’altra parte e in fondo mi va bene così.
Non fosse altro perché nessuno della gente con cui ho suonato in quegli anni ha continuato.
Non fosse altro per tanti motivi che adesso non saprei nemmeno dire, ma che da qualche parte, sono convinto, ci sono.

Dico solo che c’è un modo di godere che non c’entra nulla con il sesso.
Ma è roba di amplificatori, di cavi, di pedali e corde di nikel.
Roba che ti vengono i brividi e ti sorride la faccia.
Roba di vibrazioni, di esplosioni, di velocità.
Di suono che ti riempie.

E quel suono sei tu.

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editoriale di Bartleboom

Premessa n. 1: non sarà un editoriale particolarmente illuminante. Tutt'altro. Però sta cosa ce l'ho qui da un po' e voglio sapere se me la sto prendendo per nulla;

Premessa n. 2: l'altro ieri è cominciato il Ramadan. Niente acqua e niente cibo dall'alba al tramonto. Peccato che siamo ad agosto, il sole sta bello pizzo nel cielo per 18 ore al giorno e se va bene ci sono 25° all'ombra. Il Presidente delle associazioni islamiche italiane (chiedo scusa, ma non sono riuscito a trovare il nome e la carica esatti) ha concesso che chi lavora nei campi, spezzandosi la schiena sotto il sole, è perlomeno autorizzato a bere. La notizia, però, non è stata accolta positivamente da tutti: infatti c'è stato chi si è lamentato ed ha giudicato questa deroga ingiusta e comunque non giustificata;

E ora l'editoriale vero e proprio.

Non riesco più a guardare i programmi di cucina.

Non che prima me la spassassi granché tra "Chef per un giorno", quello con Mengacci, quell'altro con lo chef che insulta tutti e mi chiedo come mai non abbia ancora trovato qualcuno che lo aspetti fuori e gli faccia scoprire un uso alternativo del mestolone...

Però, devo ammetterlo, ogni tanto l'occhio ce lo buttavo. A colazione, ad esempio, mi guardavo Top Chef e me la sghignazzavo di brutto sentendo dei nomi mostruosi per descrivere dei piatti che assomigliano tanto ad una tartina col burro.

A pranzo, i seni generosi della Clerici mi accoglievano e mi cullavano, mentre cuochi ormai familiari si sbattevano per stare dietro a concorrenti incapaci anche di aprire un uovo senza combinare un casino pazzesco.

Poi ho iniziato a notare quanto cibo venga sprecato in questi programmi. Chili e chili di prodotti soltanto per le scenografie. Centinaia di uova solo per fare la "Prova di velocità" in cui vince chi monta a neve per primo l'albume. Poi c'è la prova in cui vince chi riesce a disossare più polli. Quella in cui si affettano più cipolle. Quella in cui si trita più carne. Insomma: vince chi butta più cibo.

Ma porca miseria. Ma solo io mi sono sentito ammorbare la fanciullezza con frasi del tipo: "O mangi sta minestra o butto la nonna dalla finestra?" "Non ti alzi finchè non hai finito tutto"? "Non giocare col cibo"?

Ora, non voglio riesumare l'antico detto "In Africa i bambini muoiono di fame...". Però oggi, qui da noi, c'è gente che fa fatica a fare la spesa e questi sprecano supermercati interi di roba per vedere chi è più fico col frullatore. Sta cosa mi fa impazzire. Mi procura lo stesso fastidio fisico di una qualsiasi intervista a Gasparri.

Come lo concludo questo editoriale? Non lo so. Non penso ci siano grandi conclusioni da tirare. E allora me la cavo con una frase che ripete sempre un tizio che conosco. Secondo lui è una citazione, ma ogni volta che gli chiedo di chi, mi dice un nome diverso:

"Se vuoi davvero bene a tuo figlio, cerca di fargli provare sempre un po' di freddo e un po' di fame".

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A sei anni il nucleare fu Ken Shiro.
Sapete, no? "Siamo alla fine del XX secolo, il mondo interno è sconvolto dalle esplosioni atomiche…".
Epicissimo. Roba da brividi.
Roba che quasi quasi mi faccio investire da una tonnellata di acqua radioattiva così divento forte come Toki e più incazzato di Godzilla.

A otto anni il nucleare fu una gita scolastica.
Meglio: una gita scolastica mancata.
Erano i primi giorni dell'aprile 1986 e la IV B della Scuola Elementare di BartleTown si apprestava a fare visita al Parco della Preistoria di Vergate sul Membro (MI).
Pochi giorni prima della partenza, però, succede un gran casino da qualche parte in Russia o giù di lì, non si capisce bene dove. Dai telegiornali iniziano bombardamenti a grappolo di immagini di enormi camini in cemento armato e inquietanti operai con le maschere a gas e le tute di plastica arancione. La gente parla di contaminazione, di nube tossica, chi tocca l'erba muore.
E così niente gita.
Unico vantaggio: a casa Boom, il minestrone viene mandato in esilio sino a data da destinarsi.

A dodoci anni il nucleare fu un documentario.
Mezz'ora girata male, inquadrature traballanti, colori spenti, zero ritmo. Provenienza: Cernobyl, Ucraina.
Ci sono campagne abbandonate che solo a vederle in televisione ti viene freddo alle ossa. Casolari isolati, animali abbandonati.
C'è una pecora: ha la mascella deforme, non si sa come faccia ad alimentarsi. Un'altra ha tre paia di zampe.
C'è una donna. Anziana, ma non troppo. Fissa la telecamera e non dice niente. Tiene in braccio un bambino senza occhi, con le articolazioni delle gambe al contrario. Sono passati vent'anni e il ricordo di quel documentario riesce ancora ad angosciarmi.

A sedici anni il nucleare fu "Nuclear Winter" dei Sodom: super chicca thrash metal, tra le prime canzoni che ho imparato a suonare con la mia Ibanez koreana. Non so più quanti sabato pomeriggi ho passato a consumarci plettri e polpastrelli.

A trenta e passa anni, il nucleare è Fukushima, lo tsunami, gli elicotteri che buttano acqua sui reattori, i bambini con le mascherine sulla bocca e le mamme col latte radioattivo. Il Governo giapponese che ogni giorno dice una cosa diversa.

A trenta e passa anni, il nucleare doveva essere anche un Referendum.
Ho cercato di informarmi, di capire.
L'internet l'ho scartato quasi subito: il più delle volte viene fuori che i siti sull'argomento sono in realtà gestiti dall'ufficio stampa dell'Eni. Oppure da qualche aiuto-vice-sottosegretario alle politiche energetiche. E allora tanto vale.

Così ho deciso di chiedere alla gente che conosco, chissà mai che ne sappiano più di me.
E' venuto fuori di tutto:
- "Le centrali non sono sicure! Guarda che casino in Giappone!"
- "Ma che ti frega! Tanto se ne scoppia una francese facciamo comunque la fine del calamaro nel fritto misto!"
- "E le scorie?! Eh?! Le scorie?! Lo sai che mantengono la radioattività per mille milioni di anni?!"
- "In Germania le hanno sotterrate e dormono sonni tranquilli"
- "Il petrolio presto finirà! Abbiamo bisogno di altre fonti di energia!"
- "Anche l'uranio presto finirà. Dobbiamo investire sulle fonti rinnovabili!"
- "Sì, bravo! Vatti a vedere gli scempi ambientali dell'eolico in Calabria!"

E via discorrendo.
Sono arrivato alla conclusione che chi parla di nucleare o ha qualche interesse di troppo nella faccenda, oppure ne sa quanto me.

E allora ci ho rinunciato.
Davvero.
Ho deciso che non voglio essere informato sul nucleare.
Mi bastano i miei ricordi.
E le mie paure.

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editoriale di Bartleboom

Lo dicono in tanti, lo dicono tutti: la musica è sempre più solo un sottofondo.
Si ascolta musica mentre si lavora, si studia, si cucina, si fa la doccia, si fanno le pulizie, si fa all’amore…
Raramente si ascolta musica “e basta”.

Nel mio caso la questione è legata a doppio filo all’annoso problema della massificazione delle rotture di palle.
Sfogliando il mio profilo Lastfm, ho scoperto che ascolto soprattutto la prima metà di ciascun disco. E il motivo è il più banale: tutte le volte che mi metto con la buona volontà e la sacrosanta voglia di ascoltarmi un album dall’inizio alla fine, uno sciame di scocciatori e fresamaroni mi scambiano per uno dei pastorelli di Lourdes e mi si manifestano nelle forme più disparate, finché alzo bandiera bianca e mi metto a fare altro.
E’ un po’ come quando a 12 anni ti chiudevi in bagno con la copertina dell’Espresso e non chiedevi altro che 10 minuti per volerti bene in solitudine. E, invece, in quei 10 minuti capitava di tutto: da “E’ pronto in tavolaaa!”, al tizio che ti telefona per chiederti se vuoi cambiare il salotto, ai testimoni di Geova che fanno gli straordinari alle quattro del giovedì pomeriggio.

A pensarci bene è sconfortante, ma l’unico momento in cui davvero mi godo la musica è quando sono in macchina. Soprattutto quando sono imbottigliato nel traffico.

Ecco, rivendico il mio diritto universale all’ingorgo quotidiano!

Niente di esagerato, per carità. Non voglio mica un incidente mortale, 18 km di coda, la protezione civile che distribuisce le bottiglie da mezzo litro e un collegamento dopo il servizio sui cani a Studio Aperto.
Mi basta anche un ingorghetto piccolino, meglio se di sera, a giornata finita, quando ormai non posso più arrivare in ritardo da nessuna parte. Non una di quelle code stressanti da frizione-prima-frizione-seconda-freno ad libitum.
L’ideale sarebbe, chetò: un carico di shampoo è caduto dal camion e adesso dobbiamo aspettare che si asciughi la schiuma, ci metteremo un’oretta, quindi spegnete i motori, avvertite a casa che arriverete tardi per cena e, se potete, non esagerate con le sigarette.

Penso che per prima cosa manderei un messaggio a chi mi aspetta.
Poi prenderei da sotto il sedile il porta CD e inizierei a sfogliarlo lentamente, come una lista di vini, cercando quello più adatto, da abbinare alla situazione e al mio stato d’animo.
Probabilmente sceglierei uno di quei dischi che non ascolto da tanto. Non troppo brutal, né troppo lagnarock. Qualcosa di ben suonato, da gustare con attenzione.

Spegnerei la macchina e tirerei giù leggermente il finestrino del passeggero.
Farei scorrere il sedile indietro, fino in fondo, e inclinerei leggermente lo schienale.
Allungherei le gambe e infilerei i piedi nello spazio tra i pedali.

E ascolterei.
E basta.

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